Una riunione al vertice - racconto

 

Apparso su “il manifesto” del 24 agosto 2012


Nel lungo tragitto della vita,

incontrerai tante maschere e pochi volti.

Luigi Pirandello


Dare la corda al suo vecchio orologio da polso era un gesto dal sapore antico che lo tranquillizzava sempre. Gli sembrava lo aiutasse a rimettere ordine. E lui amava l’ordine. Ne sentiva il bisogno. Specialmente dopo una riunione di lavoro confusa come quella che aveva appena avuto con i suoi due interlocutori, per fortuna momentaneamente spariti dalla sua vista. Due teste di cazzo, per quel che lo riguardava. Ma le circostanze gli imponevano di relazionarsi con loro. Non poteva evitarlo. Rimasto solo dentro quel salotto romano caldo e appiccicoso nonostante l’aria condizionata, seduto su una scomoda poltrona di cuoio giallo e corpo placcato in oro, Riccardo De Marco continuava a girare la rotella del suo orologio con vigore, anche se non ce n’era più bisogno. Le lancette avevano già ripreso il loro giro.

Si abbassò la patta e iniziò a pisciare. La cosa lo aiutò a rilassarsi un po’. Di fatto, la riunione non aveva portato a nulla, ma il problema non era questo. Non ci aveva fatto il minimo affidamento, e a cavarsela ci avrebbe pensato da solo, come sempre. Il problema era che quel genere di incontri lo annoiava da morire. Specialmente ad agosto, quando l’unica cosa giusta da fare sarebbe stata andarsene ai tropici con qualche bella figliola. Dalle tette grosse, come piacevano a lui. Un paio di idee ce le aveva già. Sabrina: grosse e sode. O Barbara: ancora più grosse. O entrambe, perché no? Accorgendosi di avere in corso un principio di erezione, Antonello Cangrande per un attimo pensò di assecondarlo e lavorare di mano. Ma poi cambiò idea. Di là lo stavano aspettando.

Quel candelabro in bronzo lì non stava affatto bene. Lo avrebbe fatto spostare quanto prima, pensò con stizza percorrendo il corridoio che dal suo studio privato lo avrebbe ricondotto nuovamente in salotto dai suoi due ospiti. S’era inventato di dover fare una telefonata urgente e li aveva piantati lì non appena la riunione era terminata, dicendo che sarebbe tornato in capo a dieci minuti, per servire l’aperitivo di congedo e, dopo tanto parlare di lavoro, chiacchierare un po’ con loro del più e del meno. Come se quella non fosse stata l’ultima cosa che avrebbe voluto fare in quel momento. De Marco e Cangrande lo avevano stomacato. Un rancoroso e un erotomane non erano esattamente la compagnia ideale. Tanto più lì dentro. Il buon senso, però, come sempre, imponeva di fingere. Varcando la soglia del salotto, Giorgio Borromeo si lasciò illuminare il volto da un ampio sorriso. De Marco e Cangrande, vedendolo, fecero lo stesso.

“Caldo bestiale, eh?”, domandò De Marco guardando fisso la città bollente attraverso una vetrata, dopo aver constatato che il Laurent-Perrier versatogli da Borromeo non era abbastanza freddo.

“Già”, rispose Cangrande. “L’unica cosa buona è che così le belle donne girano con poca roba addosso”.

“Sì, ma anche quelle brutte”, ghignò Borromeo.

Seguì una breve risata corale un po’ scomposta, che allentò d’un colpo la tensione e fece dimenticare a tutti e tre che stavano solo fingendo di essere a proprio agio, in quel salotto. Complice lo champagne, che i tre si affrettarono a terminare per versarsene ancora, ciascuno si ritrovò a pensare che, in fondo, una bevuta con gli altri due non poteva essere peggio della riunione di lavoro appena terminata. Tanto valeva godersela e mollare un po’ il freno, prima di tornarsene ognuno sulla propria strada.

“Comunque, questo caldo mi ha lasciato proprio senza energie”, riprese Cangrande. “Una bella vacanza via da questo Paese è quel che mi ci vuole. Maldive, probabilmente. Voi dove andrete quest’anno?”.

“Non me ne parlare”, si lamentò Borromeo. “Vacanze vuol dire famiglia… E vacanze in famiglia vuol dire rottura di coglioni”.

Gli altri due annuirono severi.

“Basta farle separate, Giorgio”, disse De Marco. “Con mia moglie va così da anni, e le cose funzionano meglio. All’inizio lei non voleva, poi penso che a un certo punto si sia scopata qualche africano, e da allora ci ha preso gusto. E io pure”.

“Ma perché sposarsi, dico io?”, sbottò Cangrande versandosi il terzo calice di vino, senza curarsi d’una goccia che scivolò lungo il corpo della bottiglia e andò a imbrattare il tavolo di mogano. “Mica siamo più nell’Ottocento! Per fortuna anche gente come noi può evitare oggi la tomba del matrimonio senza più sentirsene troppe”.

“Lo dici tu. E i preti, poi?”, disse Borromeo.

“Ma quali preti! Quelli scopano più di noi! Alla Chiesa bastano i soliti privilegi, nel privato fai quello che vuoi”.

“Bah. Io penso sia meglio rispettare ancora certe etichette. E poi io a mia moglie voglio bene. Sono solo le vacanze che ci rompono gli equilibri. Fosse per me, me ne resterei qui”.

De Marco sgranò gli occhi: “Il caldo deve averti dato alla testa, Giorgio. Qui? A fare che? Ma non hai la nausea? Io personalmente comincio a odiare questo Paese. Pieno di ignoranti che non conoscono il mondo in cui vivono. Si lamentano della crisi, e non saprebbero spiegarti nemmeno cos’è, questa cazzo di crisi. Come è nata e come se ne esce”.

“Per nostra fortuna”, commentò malizioso Cangrande.

De Marco sorrise, mentre Borromeo, serio, si alzò dalla poltrona per avvicinarsi al carrello degli antipasti a prendere alcune tartine al salmone, che servì ai suoi ospiti prima di tornare a sedersi.

“Il problema è il trionfo del demerito”, disse. “Vanno a scuola ed escono capre, e pure a pieni voti. Io vedo quel rincoglionito di mio figlio. Quindici anni e non sa nemmeno cos’è un bond. Per forza, mica glielo insegnano, al liceo. E se anche glielo insegnassero, lui non lo capirebbe, perché è tardo. Avete capito bene: tardo. Non ho problemi ad ammetterlo: mio figlio lo è. Devo dirglielo io, agli insegnanti. Che, solo perché è mio figlio, lo mandano a casa con una pagella piena di sette e otto. E così succederà anche all’Università. Poi per forza il Paese va a rotoli”.

“Hai ragione, Giorgio”, ammise Cangrande. “Ma in fondo noi siamo la prova che può succedere anche il contrario, e che il merito ogni tanto vince”.

Borromeo fissò Cangrande pensando che il suo interlocutore fosse invece proprio la prova di quanto aveva appena affermato. Ma ovviamente tenne per sé quel pensiero.

“Il problema, Antonello, non è tanto la mancanza di persone competenti”, rifletté De Marco, che stava sudando copiosamente, la camicia ormai madida di sudore in più punti. “Quanto proprio la presenza di troppi ignoranti. Ci invadono. Ci abbassano al loro livello. Non abbiamo le mani libere. Non possiamo fare quello che saremmo capaci di fare in quantità: i soldi”.

Al suono di quella parola, i tre rimasero per qualche secondo in silenzio, come volessero udirne l’eco.

“A queste condizioni, meglio la Cina”.

Sia Cangrande che Borromeo guardarono perplessi De Marco, che proseguì: “Lì sì che sanno fare economia. Guardate quanto crescono. Guardate come lavorano le loro imprese. E ci riescono perché gli ignoranti restano in fabbrica o in campagna a lavorare duro, e a comandare sono quelli che l’economia la sanno far girare. L’opposto che da noi. La Cina non è vicina, purtroppo!”.

Quella battuta riportò a galla reminiscenze del passato, e non fece ridere nessuno.

“Se è per questo, nemmeno la criminalità organizzata”, disse Cangrande posando il bicchiere vuoto sul tavolo, finalmente dissetato.

Gli altri due lo fissarono senza aver inteso.

“Beh, non guardatemi così!”, proseguì. “Se la mettiamo su questo piano, anche da loro avremmo qualcosa da imparare, in fatto di economia che gira. O no?”.

Borromeo scosse la testa.

“Ma scusate!”, proruppe. “A che punto siamo arrivati? Come ci siamo ridotti? Ad ammirare i dittatori e i mafiosi? Andiamo, un po’ di decenza!”.

Aveva perso il suo solito aplomb e alzato la voce. Gli altri due lo guardarono stupiti, pensando entrambi che forse si erano concessi troppa confidenza reciproca, e che l’ora di andarsene era giunta.

Fu in quel mentre che la porta si aprì, lasciando entrare un collaboratore di Borromeo dallo sguardo assonnato.

“Presidente, la conferenza-stampa inizia fra dieci minuti”.

Borromeo annuì e lo congedò. Poi tornò ad osservare i due ospiti, inespressivo, come fossero parte dell’arredamento.

“Andiamo, Giorgio, le nostre erano solo battute”, buttò lì De Marco alzandosi.

Borromeo parve non aver sentito.

“Lo so, scusatemi”, rispose infine. “Sono stanco. Forse avete ragione voi, mi ci vuole una vacanza”.

“Ti capisco benissimo”, disse De Marco posandogli una mano sulla spalla. “Altro che Cina e mafia. Basterebbe seguire le vecchie ricette del Club per rimettere in piedi questo Paese. Quelle che abbiamo studiato. Quelle che conosciamo bene. Quelle che non riusciamo in alcun modo ad applicare. È frustrante. Dannatamente frustrante”.

Borromeo fissò i suoi ospiti con sguardo triste. Prima De Marco, poi Cangrande. Forse fu l’alcol, forse la stanchezza accumulata dopo una giornata inutile e infruttuosa come tante altre. Sta di fatto che si lasciò andare ad una confidenza fatta fino a quel momento solo a se stesso.

“Forse io non credo più nemmeno a questo, sapete? Le ricette del Club. Non ci credo più così ciecamente. È vero, noi non siamo liberi di metterle in pratica. Ma ho la sensazione che, anche se potessimo farlo, non funzionerebbero più. Non so, a volte mi pare di non credere più a niente. Solo al baratro che ci aspetta. E all’odio. Sì, comincio a odiarlo anche io, questo Paese”.

De Marco e Cangrande si scambiarono un’occhiata stupita. Non avevano mai visto Giorgio Borromeo così sfiduciato. Pensarono che era proprio ora di alzare i tacchi.

“Prenditela, quella vacanza, Giorgio”, disse paternamente Cangrande. “E rilassati. Sei solo stanco. Poi vedrai che ti rimetti in sesto e ricominci a spaccare il culo a tutti”.

Borromeo gli sorrise poco convinto.

“Adesso devo salutarvi, si è fatto tardi”, concluse.

Fra i tre seguì uno stringersi di mani sudate e un protrarsi di sorrisi di circostanza. Fino a che Borromeo restò di nuovo solo, a fissare la goccia di Laurent-Perrier che imbrattava il tavolo di mogano.

Si avvicinò svogliato al microfono, cercando di ingoiare la quantità eccessiva di saliva che da qualche manciata di secondi gli occupava fastidiosamente la bocca, senza riuscirci. Gli sguardi dei giornalisti erano già puntati su di lui. Sentì uno di loro parlare alla telecamera di una nota emittente televisiva, in diretta.

“Sta per iniziare l’attesa conferenza-stampa del Capo del Governo Giorgio Borromeo. Oggi il premier si è riunito in privato con il Governatore della Banca Nazionale Riccardo De Marco e il vice-Presidente della Banca dell’Unione Antonello Cangrande. Tutti si aspettano che il Governo abbia raggiunto un’intesa sulle decisioni da prendere per risollevare il Paese, dopo il tracollo finanziario dei giorni scorsi”.

Finalmente, con grande sforzo, riuscì a deglutire.

Il chiacchiericcio della platea andò scemando. Gli sguardi del pubblico si fecero più penetranti.

Toccava a lui.

Chissà perché, in quel momento gli vennero in mente le Maldive.

Scacciò subito quel pensiero, e azzerò la mente.

Poi iniziò a parlare.

“Sono felice di annunciarvi che la giornata di oggi è stata molto fruttuosa. Le ricette ci sono, e noi crediamo nel loro valore. Sappiamo cosa fare e vogliamo farlo”.

Fu a quel punto che fece una pausa e si lasciò illuminare il volto da un ampio sorriso.

“Gli italiani sono un grande popolo”, riprese. “L’Italia un grande Paese. Il Paese che amo. E saprà risollevarsi. Io ne sono certo”.